Bilancio Sociale
  Premessa
  Obiettivi
  Normativa
  GBS
  AccountAbility1000
  Bibliografia


  Bilancio Ambientale
  Codice Etico
  SA 8000
  Fund Raising


  Bilanci in Italia


  News
  News Aziende
  News Non profit


  Appuntamenti
  Corsi
  Opportunità


  Tesi
  Documenti


  Premi
  

Forum



Nella sezione forum pubblichiamo le più interessanti e-mail inviateci dai nostri navigatori relativi a problemi e/o eventi positivi riguardanti il Bilancio Sociale.
Per eventuali segnalazioni e contributi e-mail



Pubblica amministrazione, innovazione e bilancio sociale
di Marcello Vitella - Presidente di Comunica - Laboratorio di Comunicazione Pubblica e Politica

La responsabilità è partecipazione
di Lamberto Santini Segretario Confederale UIL - Responsabile Servizio Democrazia Economica

Per i Comuni il bilancio sociale è uno straordinario strumento di rendicontazione
di Sandro Vedovi - Web editor www.bilanciosociale.it

La marca riscopre la responsabilità sociale Si apre una nuova fase di marketing per le aziende di tutte le dimensioni


Le Fondazioni bancarie debbono diventare "venture philantrophy"
di Sandro Vedovi - Web editor www.bilanciosociale.it

Responsabilità Sociale: la nuova sfida per la competizione
di Renzo Serra r.serra@tiscalinet.it

La responsabilità sociale è diventata una priorità da valorizzare
Pubblichiamo parte dell'intervento del Presidente dell'ABI, Maurizio Sella, tenuto al Convegno organizzato da Anima-Unione industriali di Roma: "Il valore economico della sostenibilità."

Servono dei dirigenti d'impresa con una sensibilità ambientalista per diffondere nelle aziende la responsabilità sociale
Pubblichiamo, sempre tratta dalle colonne del Guardian, la risposta di Des Wilson, ex-amministratore degli Amici della Terra britannici, che fece scalpore, anni addietro, per essere diventato direttore alla corporate della British Airways, sulla polemica innescata dal passaggio di Peter Melchett, da una Associazione ambientalista a dirigente di una multinazionale ed innescata dall'articolo di George Monbiot. Secondo Wilson, coloro che criticano "chi passa dall'altra parte della barricata" hanno una colpa ben peggiore, sono colpevoli di aver incoraggiato il movimento ambientalista a ritornare su strategie che hanno così clamorosamente fallito gli obiettivi. La questione di fondo è: "Come si crea cambiamento?". L'impegno ambientale delle imprese era fino a poco tempo fa completamente inaccettabile, ma molto è cambiato. I più intelligenti fra gli ambientalisti che si sono convinti che gli obiettivi della tutela della natura potevano essere raggiunti con un approccio più illuminato piuttosto che con una posizione solo antagonista. Le imprese possono essere, se ben gestite da manager sensibili, modello per altre imprese di un processo che porta al miglioramento della responsabilità sociale ed ambientale.

Il tradimento della "Responsabilità sociale d'impresa"
Pubblichiamo questo articolo, in inglese, di George Monbiot, giornalista del Guardian che muove una pesante critica al fatto che le imprese si possano autoregolamentare sulla Responsabilità Sociale d'impresa, che la valutazione del loro comportamento, avvenga sempre di meno per controlli pubblici e prescrizioni, ma per decisione volontaria. Evidenzia inoltre come presso il CSR, ci sia l'idea di fondo che le società possono regolarsi come vogliano. Altra contestazione mossa dal giornalista inglese, è il fatto che sempre più spesso, dirigenti di associazioni ambientalistiche entrino all'interno di imprese, precedentemente da loro contestate e fa l'esempio di Jonathan Porritt, David Bellamy, Sara Parkin, Tom Burke e Des Wilson, personaggi delle associazioni britanniche che sono passati dall'altra parte della barricata.

Bilancio sociale, il modello aziendale del futuro.
Per trasformare la moda del socially correct in cultura imprenditoriale. E per non perdere credibilità

Riceviamo e portiamo a conoscenza dei nostri visitatori questo articolo (pubblicato sul quotidiano ".com", di venerdi 28 dicembre 2001) della Dott.ssa Ilaria Catastini, Vice Presidente Hill & Knowlton Gaia e Membro dell'Associazione ANIMA - Unione Industriali di Roma.

Multinazionali, dura marcia per l'immagine
Di GABRIELE DI MATTEO

Le difficoltà di conciliare gli aspetti economici con l’integrazione
Come mettere d’accordo bilanci di una società e solidarietà: le difficoltà da superare, parla un addetto ai lavori.

Responsabilità sociale d’impresa e cooperazione
di Adriano Turrini - Presidente Legacoop Bologna

Perché dico si al Bilancio Sociale
di Fabio Bego



Pubblica amministrazione, innovazione e bilancio sociale
Marcello Vitella - Presidente di Comunica - Laboratorio di Comunicazione Pubblica e Politica

Ma il "bilancio sociale" è di destra o di sinistra? Se è vero che la pubblica amministrazione italiana sta proseguendo su un cammino di innovazione e sviluppo e sta plasmando la sua immagine e la percezione che di essa si ha, è pur vero che questa domanda è stata recentemente posta da un assessore di un comune di medie dimensioni.
Una domanda come questa è piuttosto significativa... di una pubblica amministrazione sempre più impegnata (seppur a macchia di leopardo) nell'innovazione, ma al contempo contrastata dalla logica del pensiero politico (molto all'italiana), o peggio partitico... Il desiderio di innovare e comunicare spesso represso da un sistema pubblico autoreferenziale e "felicemente" ingessato.
Ma non tutta l'Italia è... Italia ed esistono isole ed eccellenze. Casi unici, o, per essere ottimisti, casi rari che realizzano percorsi virtuosi ed innescano processi ad alto valore aggiunto anche in termini di innovazione. La prima novità che portano con sé è l'effetto di benefica osmosi e di positivo contagio nei confronti degli enti vicini. In altre parole best-practices capaci di guidare il cambiamento a "suon di risultati ed effetti". In questa direzione le (poche) amministrazioni che hanno "eroicamente" creduto nel bilancio sociale stanno oggi beneficiando di importanti risultati e stanno facendo scuola tra le altre.
Perché tanta attenzione al bilancio sociale nelle amministrazioni pubbliche? Serve realmente o si tratta solo di una moda? Probabilmente si tratta di una moda che serve.
Se nell'ultimo ventennio si è fatta strada la convinzione che la responsabilità sociale è un aspetto essenziale dell'iniziativa imprenditoriale in quanto risulta sempre più necessario rendere conto ai propri azionisti del come e del quanto, ciò risulta ancora più evidente se l'azionista di riferimento è la comunità di cittadini presente sul territorio.
Una buona amministrazione, locale o centrale, deve dare conto alla società delle modalità di previsione di spesa, di investimento e di rendicontazione. Owero, deve/dovrebbe dar vita a quel concetto che in inglese si definisce accountability. In questa prospettiva, è opportuno comunicare in termini "leggibili" e chiari il bilancio tradizionale che ha il limite di osservare la realtà dal solo punto di vista economico e finanziario. E comunicare non significa solo informare. La va lenza del termine comunicazione sta proprio nel porre in primo piano la dialettica, lo scambio, l'interazione. Il Bilancio Sociale non ha come obiettivo unico il "rendere conto", ma il programmare insieme. Certo il percorso è complesso e lungo, ma il mettere in comune le informazioni significa porre in discussione le scelte valoriali sui bisogni pubblici. Significa aprire fortemente la pubblica amministrazione al contributo di pensiero, di idee e di proposte di tutti gli operatori ed i soggetti presenti sul territorio...
Uno strumento, il bilancio sociale, che realizzando finalità legate alla percezione ed al consenso del management pubblico si inserisce all'interno dell'organizzazione contribuendo a ridefinirla secondo una logica di efficienza e di economicità, ma soprattutto di efficacia delle scelte e delle azioni intraprese.
Di destra o di sinistra il bilancio sociale? Probabilmente bipartisan!

Torna su


La responsabilità è partecipazione
di Lamberto Santini Segretario Confederale UIL - Responsabile Servizio Democrazia Economica

Non si sa a quanti cittadini italiani sia nota l'esistenza ed il significato di "bilancio sociale", ma certamente non è argomento ricorrente nella pubblica opinione. Limitandoci ad analizzare semplicemente la sua denominazione si evidenzia come la sua essenza, l'essere rivolto al "sociale" sia oggi in contrasto con la conoscenza diffusa di questo strumento, assai più noto fra gli imprenditori piuttosto che a tutti gli attori del processo produttivo.. Molte sono le società, in gran parte appartenenti al settore dei servizi, che hanno avviato questa consuetudine in alcuni casi con estrema attenzione e con criteri all'avanguardia meritandosi. Molti sono poi gli studi ed i progetti nati intorno a questo argomento nell'intento di affinare la metodologia per rendere questo strumento un vero e proprio "certificato etico", che faccia trasparire in maniera concreta l'effettivo grado di responsabilizzazione sociale raggiunto dall'impresa in esame. Il mondo della consulenza, in simbiosi con la ricerca accademica, ha intuito subito quanto interesse gravitasse intorno alla "reputazione" di un'impresa e quanta attenzione crescesse nell'opinione pubblica intorno al concetto di responsabilità sociale. Ma una cosa è certa, se gli attori di questo processo sono plurimi (impresa, personale, consumatori, ambiente, fornitori ecc) l'attenzione e lo sviluppo di questi temi sono molto sbilanciati verso il mondo imprenditoriale. Ciò rischia di collocare la "responsabilità sociale" in un campo assai più ristretto e soprattutto rischia di essere relegato e utilizzato esclusivamente per logiche di mercato. Si parla di un nuovo "contratto sociale" tra più soggetti che superi e mandi in crisi il vecchio contratto impresa-lavoratori. Ebbene ciò sarebbe possibile se effettivamente tutte le parti coinvolte avessero effettivamente parità nel potere della gestione di un'azienda, ipotesi in assoluto improbabile. C'è poi l'aspetto dell'approccio valoriale del concetto di Responsabilità Sociale che condiziona tutta l'impostazione di una politica "sociale" di un'impresa. La reputazione si può costruire sia attraverso una bella operazione di facciata sia attraverso delle solide fondamenta e un'armonia architettonica di tutte le sue componenti. Pur riconoscendo la validità e lo sforzo mostrato nella ricerca di una metodologia che permetta il raggiungimento di caratteri di trasparenza ed omogeneità unitamente all'impegno mostrato da tutti gli Stakeholder al fine di confezionare il progetto "Bilancio Sociale" nel miglior modo possibile, è bene soffermarsi però su alcune riflessioni. La prima riflessione è la preoccupazione che ci si stia avviando verso una visione ed una valutazione troppo tecnica del concetto " etico", trasferendo su scale, indici e tabelle un concetto che nella sua essenza ha da sempre discusso dell'uomo e del suo relazionarsi, cercando di evitare stretti codici e qualifiche. La seconda riflessione riguarda il concetto di impresa che è analizzata come un'entità a sé stante, esterna ed estranea alle risorse umane e materiali che la compongono. Questo passaggio è di estrema importanza poiché è solo attraverso una ridefinizione del concetto d'impresa che è possibile attuare delle politiche effettivamente socialmente responsabili. Impresa cioè come un insieme di risorse materiali ed umane che siano orientate al raggiungimento di obiettivi condivisi, collocando la risorsa umana al centro, quale motore di questo processo. E' solo attraverso un'effettiva democrazia economica, un impulso che nasca effettivamente dal cuore di un'impresa, che è possibile realizzare iniziative di vera e concreta responsabilità sociale. Per far ciò è necessario diffondere la cultura della responsabilità sociale tra i lavoratori, al fine di far crescere una coscienza collettiva che partecipi attivamente alle politiche aziendali verificando alla radice ed in prima persona il comportamento etico della propria azienda. Ma soprattutto è necessario ridisegnare la mappa degli "stakeholder" collocando il capitale umano come sottoinsieme della voce impresa assieme al capitale materiale e non al suo esterno, in quanto fattori inscindibili. "Libertà è partecipazione" erano le parole di una vecchia canzone, ma nel nostro caso una vera e concreta responsabilità sociale può essere raggiunta solo da una profonda partecipazione dei lavoratori attraverso politiche aziendali che riconoscano pari dignità ai lavoratori e alle loro rappresentanze, quali componenti essenziali e inscindibili dell'impresa e del suo comportamento etico. Restano pertanto di estrema attualità le osservazioni di Giorgio Benvenuto nel lontano 1976 che, sottolinea la tendenza delle forze imprenditoriali ad occupare ampi spazi del potere politico, in forte contrapposizione e in alternativa con il potere sociale dei lavoratori. Il bilancio sociale, se non riportato nella sua giusta dimensione, se non opportunamente condiviso e gestito da tutte le componenti dell'impresa, rischia di essere utilizzato non solo per mere operazioni di facciata, ma di limitare lo sviluppo della democrazia nell'impresa. La patente di impresa socialmente responsabile deve essere rilasciata in primis da chi conosce bene, dall'interno, i comportamenti, i valori, la cultura vera e profonda che pervade la vita dell'impresa. Non è sufficiente chiedere a "saggi" esterni di certificare quanto l'impresa rispetti i codici di comportamento, quando le relazioni interne si ispirano magari ad un modello che causa conflitti perenni! In ritardo rispetto ad altri Paesi europei e agli Stati Uniti, si stanno diffondendo anche in Italia degli strumenti di investimento di finanza etica. In una recente ricerca del gruppo Re sono presenti in Italia 13 fondi etici di diritto italiano, con una prospettiva di crescita. Infatti, se negli U.S.A. coprono circa il 16% del mercato, in Europa sono a circa il 7%, mentre in Italia non raggiungono il 2%.

Torna su


Per i Comuni il bilancio sociale è uno straordinario strumento di rendicontazione
di Sandro Vedovi - Web editor www.bilanciosociale.it

Gli Enti Locali, in particolare Province e Comuni, stanno scoprendo l'importanza della rendicontazione sociale come mezzo per illustrare al meglio ed in maniera trasparente ai propri cittadini la loro attività, i risultati conseguiti, le risorse impegnate, gli obiettivi raggiunti. Il primo Comune a scoprire il bilancio sociale fu nel 1997 il Comune di Bologna, che è e rimane un caso di scuola e di studio. A detta di molti il bilancio sociale dovrebbe essere il vero bilancio dell'Ente, affiancando il tradizionale bilancio d'esercizio, in modo che anche i non addetti ai lavori possano comprendere efficienza ed efficacia delle iniziative intraprese e delle spese effettuate. Il modello si articola in due parti:
1) L'identità dell'Ente dove vengono descritti visione politica e disegno stategico, assetto istituzionale e struttura organizzativa, risorse messe a disposizione e pubblico di riferimento (stakeholder)
2) Le aree ed i settori da rendicontare. Ovviamente il bilancio sociale non deve trasformarsi in uno strumento di propaganda ma deve avere fonti e documenti certi e verificabili, solo in questo modo potrà avere credibilità ed il suo contenuto rispondere alle esigenze di trasparenze che si aspettano i cittadini.
I due obiettivi su cui l'Ente deve puntare quando si accinge a predisporre il proprio bilancio sociale debbono essere il miglioramento delle capacità di programmazione e controllo dell'amministrazione e la volontà di stabilire un dialogo duraturo con i cittadini sulla base di una comunicazione condivisa.
Lo schema tipo per la realizzazione di tale documento rendicontativo prevede:
a) l'individuazione della missione dell'Ente;
b) la scelta degli ambiti da rendicontare, individuando gruppi di lavoro interni;
c) la descrizione di strategie, azioni, attività realizzate partendo dall'analisi delle fonti (programma di mandado, PEG, sistema di pianificazione e controllo, bilancio preventivo, conto consuntivo, dati extracontabili, etc.)
d) la verifica delle risorse distribuite, la coerenza tra programma, missione ed obiettivi;
e) confronto esterno con gli stakeholder.
Fondamentale per il successo del progetto è il coinvolgimento del personale interno, diviene necessaria una attività informativa-formativa di base che crei all'interno dell'apparato burocratico una cultura rendicontativa e della trasparenza, solo in questa maniera il lavoro del bilancio sociale non verrà visto come un "di più".

Torna su


La marca riscopre la responsabilità sociale
Si apre una nuova fase di marketing per le aziende di tutte le dimensioni


La marca lungimirante sta entrando in una nuova fase del suo ciclo evolutivo. Che ha avvio con l'orientamento al prodotto e si sviluppa poi con l'orientamento alla vendita al marketing e, infine, al consumatore. Le nuove strategie della marca mostrano adesso una forte accentuazione della sensibilità alla dimensione etica e delle responsabilità sociali. E pur vero che ciò avviene soprattutto per le grandi corporation. Ma sono anche marche di medie dimensioni ad inoltrarsi su questo terreno. Il termine mission - a cui si fa abitualmente riferimento parlando della marca - si riscatta, nel nuovo contesto, dalle sue interpretazioni più banali e retoriche. Del tipo: produrre un determinato bene o rendere felici i consumatori e gli azionisti. Per assumere, invece, un significato molto vicino all'etimologia originaria. Sia chiaro che l'approdo a queste nuove dimensioni non significa che, in altri periodi, la marca si sia mossa in una dimensione non etica. Soltanto avveniva all'interno di una serie di regole che la legge, la deontologia, i codici di autodisciplina prescrivevano. Se venivano a crearsi ambiti di discrezionalità non era sempre la dimensione della responsabilità sociale a prevalere. Nel nuovo corso si tratta invece di una libera scelta. Di un surplus di oblatività della marca nei confronti del sociale e della comunità. Cosa significa tutto ciò? Anzitutto il passaggio dalla logica della massima soddisfazione degli shareholder (gli azionisti) a quella degli stakeholder. Che includono gli azionisti ma anche chi lavora nell'impresa, i consumatori, i fornitori, il sindacato, la comunità at large. La marca non deve render conto soltanto alla proprietà ma sviluppare una responsabilità più ampia nei confronti della società. Trascende l'orientamento al consumatore - che pone in primo piano la sua soddisfazione, la salute, la compatibilità ambientale, l'attivarsi di un sistema di relazioni - per inglobarlo nel più ampio contesto dove il consumatore vive ed opera, non soltanto compera. Procedere nell'area delle responsabilità sociali significa farsi carico di finalità di alto profilo etico - cultura, gravi patologie, handicap, lotta all'emarginazione, protezione dell'ambiente, servizi per la comunità, qualità della vita - in una sorta di redistribuzione del valore aggiunto che genera. Significa cioè devolvere a cause di interesse collettivo una aliquota dei propri profitti. Ma anche superare una, ormai anacronistico, contrapposizione tra socialità ed economicità. Sovente le motivazioni per la nuova sensibilità hanno cause endogene. Come gli attacchi alla marca da parte dei "no global", una captatio benevolentiae nei confronti del mondo politico, della comunità locale, la ricerca di una positiva ricaduta sui dipendenti. Altre volte nascono per un'autentica vocazione della marca a procedere ben oltre i suoi tradizionali confini. In ambedue i casi è comunque un percorso impegnativo non solo per le risorse destinate. Perché è indispensabile che anche i comportamenti della marca divengano del tutto coerenti con i nuovi impegni presi con il sociale. Perché occorre che la dimensione etica, il rigore morale vengano interiorizzati dalla cultura aziendale. La eticizzazione della marca non rappresenta certamente un trattamento cosmetico. Bensì una precisa assunzionzione di responsabilità che non si esaurisce nella redazione di un bilancio sociale. Ma al tempo stesso è importante - in questa occasione non vige davvero il principio cristiano della mano destra/sinistra - una corretta comunicazione al proposito. Accentuare la dimensione etica della marca non significa mecenatismo. Bensì investimenti. Ispirati non opportunismo commerciale, ma su cui comunque non passare sotto silenzio anche nella logica del rafforzamento dei valori della marca. Valori che il consumatore post-rnoderno - che manifesta, al di là delle apparenze, maggiore consapevolezza spirituale, empatia ecologica, e sensibilità etica - dimostra di apprezzare molto. E come se si attendesse, oggi, dalla marca questo tipo di impegno. Non c'è da sorprendersi se, anche nelle scelte di consumo, a parità di costo e di performance, questi valori della marca possano poi venire premiati.
Articolo di Giampaolo Fabris - (Il Sole 24 ore)

Torna su


Le Fondazioni bancarie debbono diventare "venture philantrophy"
di Sandro Vedovi - Web editor www.bilanciosociale.it

Analizzando l’efficacia delle donazioni che le Fondazioni bancarie agli enti non profit, possiamo dire che spesso la ricaduta è ben lontana dalle attese sperate. Pur essendo generose queste donazioni non raggiungono lo scopo di far crescere gli enti non profit, per non parlare degli scontri per la gestione di queste risorse che avvengono nel mondo del volontariato, basta ricordare quanto è successo in numerosi Centri Servizi del Volontariato, a cui è diretta una quota obbligatoria per legge di tali finanziamenti delle Fondazioni. Le Fondazioni molto spesso non si preoccupano, di valutare se successo ed efficacia dell’iniziativa possano crescere nel tempo (piuttosto che esaurirsi una tantum), né di far aumentare le probabilità di miglioramento delle organizzazioni che finanziano tramite interventi diretti o programmi di assistenza manageriale. Ritengo che le Fondazioni dovrebbero prendere a modello quanto proposto da Christine Letts, titolare del corso di laurea “Non profi leadership” all’Università di Harvard, e condiviso anche da Vincenzo Manes, Presidente della Fondazione Vita, che ha lanciato l’idea di prendere ad esempio il modo di operare delle società di “venture capital” nei confronti delle “start-up”, che selezionano con cura le società possibili beneficiarie dei finanziamenti, scomettendo su organizzazioni giovani con idee innovative, seguendone il percorso di crescita e verificando come sono stati utilizzati i fondi concessi.

Gli elementi da assimilare sono essenzialmente:

1) La valutazione del rischio imparando a gestirlo, non tutti gli investimenti hanno successo e soprattutto sono sicuri al 100%. Le Fondazioni non amano il rischio e quindi i loro dirigenti sono disincentivati nel sostenere progetti innovativi dove però non si riesce a prevedere i risultati. Si punta quindi su iniziative “tranquille” dove non serve nemmeno monitorare da vicino il successo del programma.

2) La misurazione delle performance. Le Fondazioni non si preoccupano degli obiettivi a lungo termine, limitando i finanziamenti in un periodo di uno o due anni, atteggiamento che compromette le ricadute a lunga distanza.

3) La fornitura di servizi di sostegno che non siano solo il finanziamento. Il “venture capitalist” offre una serie di servizi come consulenza, training gratuito al management, compartecipazione alle decisioni (di solito fa parte del Consiglio di Amministrazione). La Fondazione non pensa a sviluppare una partnership reale per accrescere le capacità del soggetto finanziato.

4) Verifica dell’impatto delle risorse date all’organizzazione non profit. Le Fondazioni tendono a distribuire i loro fondi ad un numero molto alto di soggetti, comprendo quindi solo in parte le spese che ciascuna organizzazione sostiene, costringendo tali strutture alla ricerca ulteriore di risorse, che disperde energie e concentrazione sul progetto base individuato.

5) Sostegno prolungato nel tempo. I “venture capitalist” di solito si impegnano in un sostegno della società per almeno 5 anni e più, una scelta che lega strettamente finanziatore e finanziato, che accresce la collaborazione e la conoscenza reciproca. Rapporti brevi nel tempo, come fanno le Fondazioni, portano all’impossibilità di sviluppare adeguate strategie, piani di sviluppo, nuove idee.

6) La possibilità di sviluppo futuro. Il problema maggiore che rende estremamente incerto l’ente non profit sostenuto dalla Fondazione è il fatto di che cosa accadrà dopo la fine del sostegno al progetto. I “venture capitalist”, quando concludono il rapporto con la “start up”, vogliono vedere i frutti del loro investimento e vendono le quote societarie ad un investitore esterno, che a sua volta subentra e fornisce nuove risorse che consentono la crescita.
A conclusione di questo ragionamento riteniamo quindi che il non profit e le Fondazione debbano avvicinarsi maggiormente a tecniche e modalità d’investimento proprie del mondo della finanza profit, solo così sarà possibile creare un effettivo salto di qualità delle organizzazioni che fanno dell’impegno sociale la loro attività.

Torna su


Responsabilità Sociale: la nuova sfida per la competizione
di Renzo Serra r.serra@tiscalinet.it

La continua ricerca del miglioramento per competere richiede una visione globale dell’azienda nel contesto sociale. L'approccio vincente sembra essere la valorizzazione dei comportamenti etici verso i quali i mercati sono sempre più sensibili e che garantiscono il massimo profitto. Oggi è disponibile una Norma internazionale che consente la certificazione della Responsabilità Sociale ed è possibile progettare Sistemi Etici che producano vantaggi concreti.

Le sfide per il management

Alle domande che il management si pone abitualmente: "Come posso migliorare la competitività della mia azienda ? Cosa richiede il mercato ?" oggi sembra possibile dare delle nuove risposte attraverso una svolta nella cultura d’impresa.
Attualmente viene messa in luce l’importanza della “creazione del valore” che meglio si raggiunge con l'evidenza dei valori che stanno alla base dell’impresa. CONFINDUSTRIA ha varato prima lo Statuto, poi il Codice Etico e recentemente ha definito la Carta dei Valori degli iscritti. Il tema non è nuovo: il Villaggio Crespi d'Adda alla fine del secolo scorso cercava di coniugare le esigenze dell'industria nascente con condizioni di vita soddisfacenti per i lavoratori. Oggi la globalizzazione dell'economia sta dando nuovi significati a queste ricerche, per evitare che sistemi economici senza regole riproducano a livello mondiale il disastro accaduto negli USA nel '29. Con quella crisi l'America comprese che era indispensabile introdurre nel sistema economico regole ANTITRUST che garantissero la par condicio per gli imprenditori e sistemi di protezione sociale per i lavoratori realizzati con il NEW DEAL roosveltiano. Il sistema economico americano, oggi indicato come tra i più efficienti e competitivi, non si è fermato a questi provvedimenti cogenti, ma ha liberamente sviluppato in molte aziende regole volontarie di comportamento etico per raggiungere l'obiettivo della massima profittabilità dell'impresa. Oggi si può affermare che principi etici devono stare alla base dei sistemi capitalisti per il loro buon funzionamento. Bisogna porre al centro della visione manageriale il concetto esteso di responsabilità. È significativo l’episodio delle dimissioni della Commissione europea a seguito delle accuse del Comitato dei Saggi ad alcuni Commissari che, pur non avendo commesso direttamente delle irregolarità, hanno ammesso di non essere stati in grado di controllare i loro dipendenti che hanno commesso delle scorrettezze. Questa nuova concezione etica di responsabilità può essere attribuita all’ingresso nella Ue dei Paesi scandinavi che hanno introdotto elementi di cultura calvinista con i quali l’intera Comunità dovrà progressivamente confrontarsi. Peraltro i Paesi che hanno adottato in passato questi criteri sono attualmente al vertice dello sviluppo economico e di benessere individuale, come risulta da “The world conpetitiveness yearbook 1999” pubblicato da IMD (International Management Institute of Development – Sito Internet: http://www.imd.ch/wcy.html): USA, BENELUX, Germania, Paesi Scandinavi, UK. Va anche ricordato che la responsabilità individuale sta alla base dei corretti rapporti di lavoro: in molte aziende l'orario di lavoro non viene neppure definito e le presenze sono rilevate solo a scopi assicurativi. Questa visione mette in gioco la cultura più profonda del management che deve essere in grado di esprimere valori di riferimento reali, concreti e raggiungibili; trainanti e motivo d’orgoglio per tutti gli appartenenti all’azienda e oggetto di ammirazione e rispetto per chi ne viene in contatto dall’esterno. Appare sempre più necessaria una visione globale, olistica dell’azienda nel contesto sociale, con le fondamentali componenti umane dotate di sensibilità psicologiche da soddisfare. Si tratta di una ricerca continuativa per la soddisfazione delle esigenze e delle aspettative degli stakeholders all’interno e all’esterno dell’azienda, realizzata indagando anche nella sfera dell’inespresso, del non conscio che racchiude valori essenziali e condiziona i comportamenti. La sensibilità del mercato è in continua evoluzione: gli anni '80 erano caratterizzati dalla qualità dei prodotti, gli anni '90 dal rispetto dell'ambiente, i prossimi anni dalla Responsabilità Sociale. Si è avviata la tendenza del mercato ad acquistare valori associati a prodotti e servizi. Appare sempre più errato attribuire agli Stati il massimo ruolo di pianificazione e controllo, anche per la diffusa perdita di prestigio morale, mentre si sta affermando il loro ruolo di sussidiarietà, perché gli standard di vita non possono essere normalizzati e deve essere possibile la soddisfazione delle esigenze individuali. La strada migliore sembra quella di restituire la libertà di scelta e di azione agli individui e alle organizzazioni, all'interno di regole condivise che garantiscano i valori fondamentali. Come regole condivise sono note quelle sulla Qualità, sulla Gestione Ambientale, sulla Salute e Sicurezza, sulle Gare d'Appalto pubbliche; sono in gestazione quelle sulla tutela del Lavoro Minorile; mentre per la Responsabilità Sociale è stata recentemente pubblicata la Norma internazionale SA8000 che si pone l'obiettivo di determinare migliori condizioni di lavoro nel mondo. È da sottolineare l'importanza delle regole riferite alle risorse umane e ambientali che impattano direttamente sulla qualità della vita. La metodologia applicativa è la stessa già utilizzata per la qualità: þ normativa di riferimento þ Organismi di certificazione accreditati da un Ente di vigilanza þ possibilità per le Organizzazioni di richiedere la certificazione di conformità del proprio Sistema di Responsabilità Sociale. Concretamente oggi il management può decidere la politica etica aziendale, sviluppare il Manuale e le Procedure necessari progettandoli secondo la Norma SA 8000 e ottenere la certificazione di conformità alla stessa Norma rilasciata da un Organismo indipendente con validità internazionale.

Etica e profitto

"Una posizione morale è ciò per cui una mente calcolatrice opterebbe dopo aver fatto bene i suoi conti" (Z. Bauman).

In Europa si è diffusa la convinzione che etica e profitto siano in contrasto per loro stessa natura, in quanto il profitto passerebbe attraverso lo sfruttamento, la competizione sleale, la sopraffazione del dipendente o del concorrente più debole. Questa convinzione è frutto di posizioni ideologiche che si sono sviluppate in epoche assai diverse dall’attuale, quando i sistemi economici erano chiusi in ambito nazionale, con componenti monopolistiche, con strutture di potere monocratiche od oligarchiche, con cittadini poco scolarizzati e scarsamente informati sulla cosa pubblica, con mass-media praticamente inesistenti. L’apertura dei sistemi economici prima a livello continentale e poi a livello globale, la parcellizzazione imprenditoriale e la diffusione delle Public Companies e quindi dell’azionariato diffuso anche tra gli stessi lavoratori, l’introduzione e il rispetto sempre più esteso di regole cogenti a tutela della libera concorrenza (WTO, UE, NAFTA), l’attivazione di normative e di Authority competenti in nei diversi campi economici, compreso quello etico (CEPAA), la velocità di diffusione delle informazioni anche verso i potenziali clienti, hanno modificato radicalmente lo scenario e quindi rendono necessari nuovi strumenti di analisi e di gestione delle attività economiche. Il profitto, se realizzato nel rispetto di regole etiche, contribuisce in modo determinante allo sviluppo economico e sociale: la conversione del profitto in investimenti e consumi genera occupazione e benessere diffuso. Le Organizzazioni dotate di Sistema Etico spesso introducono la distribuzione di parte dei profitti in opere di promozione sociale, allo scopo di avere ritorni d’immagine, oltre a benefici fiscali. Nel mondo anglosassone la concezione di restituzione del bene ricevuto dalla società è molto più sviluppata e ha dato origine alla tradizione filantropica e di volontariato: basti pensare alle donazioni per 34 Mdi $ di Bill Gates o alla media di 4 ore alla settimana di volontariato per ogni Americano adulto. Dal punto di vista teorico l'approccio etico al capitalismo può rappresentare la via di soluzione della contrapposizione tra la dottrina del "salario come variabile indipendente" e la dottrina liberista di "salario come livello minimo di sussistenza stabilito dal mercato". Infatti la prima non soddisfa alle esigenze della globalizzazione e la seconda è contraddetta dalla storia economica, almeno nei Paesi sviluppati. Quindi è necessario individuare nuove vie di soluzione e la visione di capitalismo sorretto da principi etici sembra attualmente la più funzionale al raggiungimento del massimo profitto con il contemporaneo rispetto dei valori umani. Va anche ricordato che la responsabilità individuale sta alla base dei sistemi democratici e determina la possibilità di realizzare quello che Michael Novak chiama “capitalismo democratico”. Dal punto di vista logico è intuitivo che comportamenti corretti verso gli interlocutori esterni e verso i dipendenti debbano indurre vantaggi in efficienza ed efficacia: il migliore rapporto con i clienti, i fornitori e le istituzioni pone l’azienda in posizione di vantaggio, il massimo coinvolgimento dei lavoratori stimola l’orgoglio aziendale e l’impegno personale. Inoltre, se si considerano valori sia il profitto che l’etica risulta razionale che la loro sinergia ottimizzi le performances delle Organizzazioni. Nella realtà etica e profitto non sono in contrasto: così come è ormai chiaro che il profitto è inscindibile dalla qualità, altrettanto sta crescendo la convinzione che il profitto di lungo periodo è inscindibile dall'etica che determina la reputazione aziendale. È fondamentale l’orizzonte temporale: se consideriamo il breve periodo è facile citare casi contrari, ma se consideriamo il lungo periodo la pur giovane storia del capitalismo ci sta insegnando che questa tesi è corretta. È possibile un riscontro nel Dow Jones Sustainability Group Index che analizza le prestazioni di 200 Aziende in 33 Paesi che praticano politiche di rispetto ambientale e sociale e indica una variazione dal 93 al 99 di 270 punti contro 220 punti dell'indice globale. Analogamente altre Organizzazioni stanno analizzando questo tipo di Aziende pubblicando Indici simili: Istituto Avanzi, Domini, Citizen Index, Smith Barney Concert Allocation Social Awarness. Sono disponibili Consulenti Etici internazionali: Barcester Green, Ethical Investments Advice, Global & Ethical Investments Advice, Kinder Lydemberg Domini, Ethical Investment and Information Service, Analyses et recherches sociales sur les eneterprises. Un altro indicatore è dato dal successo in Italia della Banca Popolare Etica nata nel '99 e dalla diffusione dei Fondi Etici: 44 nel UK (+10 nel ‘99), 180 negli USA (1.000 Mdi $). Probabilmente siamo all'inizio di un processo analogo alla qualità: dieci anni fa la qualità veniva generalmente considerata con scetticismo, un lusso per aziende ricche, oggi è difficile trovare un manager che non la tratti come un requisito fondamentale per la profittabilità dell’impresa. Nel mondo anglosassone si è capito già negli anni ’80 che l’etica era un mezzo particolarmente efficace per massimizzare il profitto e ora anche nel mondo latino si inizia a prendere coscienza di questa realtà. Nella ricerca di strumenti efficaci per lo sviluppo dell’economia e dell’occupazione è importante ricordare che l’etica non solo contrasta efficacemente gli aspetti negativi del capitalismo, ma consente uno sviluppo più armonico e più rapido dell’economia nei Paesi industrializzati e in quelli in via di sviluppo, combattendo la dissipazione di risorse dovuta a fenomeni di corruzione e di elusione delle regole di comportamento corretto e consentendo una giusta competizione globale. È da riflettere se tra le cause che pongono l'Italia all'81° posto nell'incremento dello sviluppo economico mondiale non occupi un ruolo fondamentale la scarsa diffusione della cultura etica.

L’obiettivo del profitto può essere raggiunto attraverso i seguenti vantaggi.

Vantaggi esterni: si riferiscono alle parti interessate all’attività dell’Organizzazione che stanno all’esterno.

1) Rapporti con gli Azionisti: fiducia nell’investimento, maggiore valore degli assetts e orgoglio per il contributo dato ad una realtà economica dai riflessi sociali positivi.
2) Rapporti con i Clienti: riduzione dei reclami e dei contenziosi, riduzione delle spese legali, fiducia e fidelizzazione.
3) Rapporti con i Fornitori: trasparenza delle transazioni nella catena di fornitura e semplificazione nel trattamento delle non conformità, comakership più facilmente realizzabile, riduzione dei costi di accettazione fino alla introduzione del “free-pass”, autorevolezza e credibilità.
4) Rapporti con le Banche: le condizioni di finanziamento per Aziende ad elevata reputazione risultano più vantaggiose, specialmente da parte di Istituti di Credito Svizzeri, Inglesi e Statunitensi.
5) Rapporti con le Compagnie di Assicurazione: i premi si riducono (la stima è del 20%) per effetto del minor rischio ambientale e sociale.
6) Rapporti con i Concorrenti: lealtà nella competizione e riduzione dei contenziosi, prestigio nella presenza sul mercato e autorevolezza nelle partnership.
7) Rapporti con le Istituzioni: riduzione dei contenziosi e miglioramento dei rapporti con il Fisco, con gli Enti di Previdenza e Assistenza, con gli Enti di tutela della sicurezza e dell’ambiente, con le Rappresentanze Sindacali, con la Organizzazioni Non Governative, con le Autorità Religiose, Politiche e Amministrative.
8) Immagine aziendale e posizione nel mercato avvantaggiate da un contatto col pubblico improntato alla trasmissione di messaggi positivi.
9) Gestione del rischio per danni provocati dalla diffusione di notizie di abuso o sfruttamento sui lavoratori ad opera della stessa Organizzazione o dei suoi Fornitori.

Vantaggi interni: interessano i dipendenti e il management.

1) Miglioramento delle relazioni industriali e quindi del clima sindacale improntato alla correttezza dei rapporti alla chiarezza dei ruoli, alla collaborazione e alla condivisione delle responsabilità del business tra management e dipendenti.
2) Corretta e trasparente politica di selezione e di assunzione del personale basata sulle effettive capacità con inserimento nell’Organizzazione solo di elementi validi e quindi in grado di dare un effettivo contributo operativo.
3) Gestione delle carriere basata sul merito e sulle effettive prestazioni e potenzialità, con conseguenze positive sulla efficienza aziendale.
4) Motivazione e fidelizzazione del personale basata sul clima di trasparenza e collaborazione, sull’orgoglio di appartenenza ad una Organizzazione orientata verso obiettivi etici, sul miglioramento continuo degli standard di lavoro, sulla formazione equa e strutturata, sulla chiara struttura organizzativa e di responsabilità.
5) Rapporti di collaborazione tra il personale basati sulla possibilità di comunicare direttamente o attraverso adeguati rappresentanti, sull’assenza di tensioni, invidie e gelosie, maldicenze e pettegolezzi, divergenze tra interessi personali e aziendali, situazioni di rischio operativo e possibili danni alla salute, casi di sfruttamento del lavoro minorile, lavoro forzato, lavoro nero, di abuso e discriminazione.
6) Ritorni economici immediati legati ai risparmi di risorse ambientali e sociali: gli investimenti rientrano in 2¸3 anni, poi è tutto profitto; le quote di emissioni di CO2 in difetto rispetto alle assegnazioni sono commerciabili.

Conclusioni
Nell’era della comunicazione istantanea si sta verificando un momento senza precedenti di cambiamento sociale globale nel modo di gestire la reputazione sulle condizioni di lavoro nei siti di origine dei prodotti. Inoltre la realizzazione in ambito aziendale dei valori primari dell’uomo può innescare la spirale positiva della creazione del valore all’interno delle Organizzazioni con riflessi benefici sull’intera società . Questo processo appare non solo compatibile con l’obiettivo del profitto, ma addirittura costituisce un ingrediente fondamentale del profitto nel lungo periodo. Quanto agli Enti pubblici o alle Organizzazioni che hanno scopi sociali l’introduzione dei Codici etici costituisce un indispensabile strumento di gestione, mentre per le Aziende di profitto tale strumento si propone come leva competitiva. La pubblicazione della norma SA 8000 e la sua progressiva diffusione offre l’opportunità di sviluppare i Codici Etici secondo una metodologia definita e condivisa, con la possibilità di formalizzare il loro valore mediante certificazione da parte di un Ente indipendente. Lo scenario è maturo per considerare questa strada come una concreta e stimolante sfida alla capacità manageriali di una Organizzazione che si pone l’obiettivo dell'eccellenza utilizzando come asset competitivo la Responsabilità Sociale.

Torna su


La responsabilità sociale è diventata una priorità da valorizzare
Pubblichiamo parte dell'intervento del Presidente dell'ABI, Maurizio Sella, tenuto al Convegno organizzato da Anima-Unione industriali di Roma: "Il valore economico della sostenibilità."

Le banche hanno un ruolo importante nel rendere più compatibile il sistema economico con le esigenze dello sviluppo sostenibile. L'assunzione della propria "fetta" di responsabilità sociale costituisce un'opportunità di esprimere al meglio il proprio ruolo, in termini di cittadinanza d'impresa. Il concetto di sostenibilità è strettamente correlato con le prospettive di una società di potersi assicurare uno sviluppo ed un successo permanente, sul piano economico, sociale, culturale. Per le imprese si tratta quindi di individuare un nuovo modello di relazioni economiche e sociali che consenta loro, senza rinunciare al profitto, di conciliare la dimensione economica con le dimensioni ambientali e sociali coinvolte nell'esercizio della propria attività. Le imprese possono, in maniera consapevole e responsabile, caricare la propria attività imprenditoriale dell'assunzione di responsabilità sociale e ambientale verso tutti gli stakeholder, ovvero tutte quelle categorie che sono coinvolte, più o meno direttamente, dagli effetti della attività di un'impresa: dai clienti/consumatori alle generazioni future, dai fornitori ai dipendenti, dai cittadini agli azionisti ai concorrenti, dai creditori alle autorità di controllo. La capacità di gestire la variabile sostenibilità diventa un elemento di vantaggio competitivo, la responsabilità sociale/ambientale di un'impresa è divenuta una priorità che non può più essere trascurata,va valorizzata, ovviamente anche dalle banche. Per le imprese bancarie e finanziarie la sfida della sostenibilità rappresenta un'occasione importante per contribuire allo sviluppo del Paese, uno sviluppo economico sostenibile. Tanto più considerando che i mercati finanziari rappresentano un punto di snodo obbligato per quasi tutti i percorsi di allocazione delle risorse e dunque un luogo dove la responsabilità delle imprese può avere conseguenze di grande rilievo sociale, per i propri impatti diretti ed indiretti. Il settore finanziario può infatti esercitare un ruolo di grande rilievo nel rendere più compatibile il sistema economico con le esigenze dello sviluppo sostenibile. Non c'è dubbio, infatti, che lo sviluppo sostenibile ha bisogno del supporto dei mercati finanziari, sia per assicurare che il flusso esistente di capitali possa essere diretto in via preferenziale a progetti di sviluppo che, ad esempio, minimizzano il danno per l'ambiente, sia per indirizzare specificamente capitali su progetti diretti a incrementare il grado di sostenibilità dell'intero sistema economico. O ancora, i temi dell'accesso al credito ed ai servizi finanziari di base, gli effetti della gestione socialmente responsabile del risparmio, possono produrre effetti significativi sulle dinamiche sociali di una comunità. Le banche sono consapevoli che il perseguimento dello sviluppo economico e della propria attività imprenditoriale sono strettamente collegate e che la sostenibilità è un obiettivo da condividere, in maniera responsabile e collettiva, in una relazione continua in cui il mondo degli affari, gli individui e le comunità hanno ognuno uno specifico ruolo da giocare. Questo cammino è stato avviato dalle banche e va percorso con determinazione e responsabilità verso tutti i propri pubblici di riferimento. Alcune banche hanno già fatto passi importanti su questo fronte, altre seguiranno. Nel concreto, le banche potranno: approfondire le tematiche relative alla responsabilità sociale per capire quanto e come può influenzare il loro business; assumere sempre maggior consapevolezza del proprio ruolo sociale, come soggetto promotore di sviluppo economico sostenibile; elaborare e diffondere linee guida; promuovere nuovi prodotti, servizi e idee innovativi per intercettare il bisogno di sostenibilità che proviene da alcune imprese, cittadini e governi; consolidare network nazionali e internazionali per condividere esperienze e proposte e diventare sempre più protagonisti nel dibattito su questi temi. Con l'obiettivo di contribuire a sviluppare cultura su questi temi all'interno del sistema bancario e finanziario, l'Associazione Bancaria Italiana ha esteso il proprio campo di azione alle tematiche connesse alla responsabilità sociale, creando con le banche un progetto specifico. Le banche sono al contempo attente a progettare e sviluppare strumenti innovativi per quella clientela - imprese e cittadini - che esprime una domanda di servizi e di attenzione a tali tematiche. Nell'ambito complessivo della propria attività, le banche organizzeranno, per i propri clienti interessati, strumenti di finanziamento per categorie specifiche di imprese - ad esempio quelle ad alto valore ambientale - o fondi etici, per rispondere ad una domanda di prodotti di investimento, con una connotazione etico-ambientale, in forte crescita. Strumenti innovativi potranno essere diretti anche verso nuovi segmenti di mercato con l'obiettivo di favorire l'accesso ai servizi bancari, facilitando l'inclusione bancaria. Figurano sempre all'attenzione delle banche strumenti di microfinanza innovativa, come il microcredito, che si differenziano dal credito tradizionale per l'ammontare delle operazioni, per le modalità di concessione secondo istruttorie atipiche, per i soggetti destinatari. Tali attività rappresentano una forma di servizio a fasce di clientela specifica e sensibile a questi temi, ad una parte dei propri stakeholder cui le banche intendono rivolgersi in una fitta rete di relazioni che vede coinvolti tutti i propri "azionisti" di riferimento. Le banche vogliono essere parti consapevoli e responsabili di questo processo. E' certamente un tema che va "oltre" le banche. E' un tema "globale" che richiede alle imprese, e quindi alle imprese bancarie, di vivere in un modo diverso la propria attività aziendale. Le imprese bancarie motivate da un forte senso di responsabilità sociale, possono rappresentare una risorsa preziosa per la comunità internazionale, quale segmento attivo e propulsivo dell'intera comunità.

Torna su


Servono dei dirigenti d'impresa con una sensibilità ambientalista per diffondere nelle aziende la responsabilità sociale
Pubblichiamo, sempre tratta dalle colonne del Guardian, la risposta di Des Wilson, ex-amministratore degli Amici della Terra britannici, che fece scalpore, anni addietro, per essere diventato direttore alla corporate della British Airways, sulla polemica innescata dal passaggio di Peter Melchett, da una Associazione ambientalista a dirigente di una multinazionale ed innescata dall'articolo di George Monbiot. Secondo Wilson, coloro che criticano "chi passa dall'altra parte della barricata" hanno una colpa ben peggiore, sono colpevoli di aver incoraggiato il movimento ambientalista a ritornare su strategie che hanno così clamorosamente fallito gli obiettivi. La questione di fondo è: "Come si crea cambiamento?". L'impegno ambientale delle imprese era fino a poco tempo fa completamente inaccettabile, ma molto è cambiato. I più intelligenti fra gli ambientalisti che si sono convinti che gli obiettivi della tutela della natura potevano essere raggiunti con un approccio più illuminato piuttosto che con una posizione solo antagonista. Le imprese possono essere, se ben gestite da manager sensibili, modello per altre imprese di un processo che porta al miglioramento della responsabilità sociale ed ambientale.

This juvenile posturing is for punks

Environmentalists can best effect change from inside corporations

Des Wilson Society

Wednesday January 16, 2002 How sadly predictable and, above all, strategically illiterate are the attacks on Peter Melchett and others who, after years of consistent and courageous endeavour on behalf of the environmental movement, have decided they have a better chance of promoting change by working with business and industry, instead of engaging in the kind of invariably useless confrontational activity enjoyed by the punk end of the movement. Critics have been guilty of far worse than shameful slurs on the records of Melchett, Jonathan Porritt, Sara Parkin, David Bellamy and others; they're also guilty of encouraging the environmental movement back into the strategies that have so conspicuously failed the cause on one issue after another, and of encouraging the petty abuse, stereotyping of business and unproductive, often juvenile demonstrating that are the real reason environmental victories have been too few and far between. Not that Melchett, Porritt, Parkin, Bellamy and co should not be defended in their own right; they've been campaigning on the frontline with consistency and integrity for more than 25 years. They can claim to be the founders of the environmental movement, a challenge and an inspiration to a generation. To charge them, as George Monbiot did in yesterday's Guardian, with betrayal, moral frailty and defection because they've had the integrity - yes, integrity - and courage to choose an alternative course, is an outrage. The issue is: how do we create change? Yes, the environmental record of business and industry was until recently completely unacceptable - and in some cases still is. Yes, there are still major offenders, polluters and wasters. Yes, significant changes in business strategy and behaviour are still called for. But much has changed, some of it because of the damage to their reputations that major companies have rightly suffered when their negligence, waste and insensitivity have been exposed, and some because a new, younger generation of managers is emerging, educated to the needs of their fellow citizens and the planet, and anxious to do the right thing. What has been happening is that the more intelligent environmentalists have become convinced that there is a way whereby environmental results can be achieved, but it calls for a more enlightened approach than just confrontational posturing. They don't pretend it has been easy to work inside and with business, but equally they know that business alone holds the key to real and rapid change. Sara Parkin, for instance, has been running a scheme to inject environmentally-concerned students into companies. Should she not be doing that? Porritt and Elkington have been encouraging the independent auditing of companies' environmental performance. Should they not be doing that? Bellamy has been running award schemes to boost companies that practice conservation and keep them on their toes. Should he not be doing that? Should they all be out on the streets with placards? Or writing sanctimonious columns for newspapers in order to "take the shilling" (Monbiot's words) for attacking their fellow environmentalists? I know how Melchett feels. When I went to BAA, the Guardian called me "a former Green". I knew that airports were noisy neighbours, that planes were energy-wasteful, that the industry's environmental record was weak. Within four years, BAA was committed to a 10-point sustainability plan and had won the award for the best environmental reporting worldwide. It cut energy use by over 10% and introduced recycling plants at its airports; BAA built, with its own resources, the Heathrow Express, the most efficient railway in the country, and took 3,000 cars a day off the road. Is BAA perfect? No. Is there still a case for aviation to answer? Yes. But I was able to work within the company at the highest level, encouraged by the receptivity of many enlightened managers, and the changes have been much greater than I could have achieved with placards, press releases, and pretentious carping in newspaper columns. Companies are reducing energy waste, some by huge percentages. More and more are turning to recycling and more careful use of resources. Others have spent fortunes on cleaner technologies and less destructive ways of doing things. These companies are at the forefront of a revolution in business behaviour that the environmentalists who depend on campaigning for a living (a shilling?) dare not acknowledge. They are the ones Melchett and company are determined to encourage and increase in number. Thank God for them. They are the environmentalists who will get the results. · Des Wilson is ex-chair of Friends of the Earth and former corporate affairs director of BAA. His and John Egan's book Private Business Public Battleground is published by Palgrave in March.

Torna su


Il tradimento della "Responsabilità sociale d'impresa"
Pubblichiamo questo articolo, in inglese, di George Monbiot, giornalista del Guardian che muove una pesante critica al fatto che le imprese si possano autoregolamentare sulla Responsabilità Sociale d'impresa, che la valutazione del loro comportamento, avvenga sempre di meno per controlli pubblici e prescrizioni, ma per decisione volontaria. Evidenzia inoltre come presso il CSR, ci sia l'idea di fondo che le società possono regolarsi come vogliano. Altra contestazione mossa dal giornalista inglese, è il fatto che sempre più spesso, dirigenti di associazioni ambientalistiche entrino all'interno di imprese, precedentemente da loro contestate e fa l'esempio di Jonathan Porritt, David Bellamy, Sara Parkin, Tom Burke e Des Wilson, personaggi delle associazioni britanniche che sono passati dall'altra parte della barricata.

Business of betrayal

Greens who defect to the corporate world jeopardise the very survival of environmentalism

George Monbiot

Guardian Environmentalism as an argument has been comprehensively won. As a practice it is all but extinct. Just as people in Britain have united around the demand for effective public transport, car sales have broken all records. Yesterday the superstore chain Sainsbury's announced a 6% increase in sales: the number of its customers is now matched only by the number of people professing to deplore its impact on national life. The Guardian's environmental reporting is fuller than that of any other British newspaper, but on Saturday it was offering readers two transatlantic tickets for the price of one. The planet, in other words, will not be saved by wishful thinking. Without the effective regulation of both citizens and corporations, we will, between us, destroy the conditions which make life worth living. This is why some of us still bother to go to the polling booths: in the hope that governments will prevent the rich from hoarding all their wealth, stop our neighbours from murdering us and prevent us, collectively, from wrecking our surroundings. Because regulation works, companies will do whatever they can to prevent it. They will threaten governments with disinvestment, and the loss of thousands of jobs. They will use media campaigns to recruit public opinion to their cause. But one of their simplest and most successful strategies is to buy their critics. By this means, they not only divide their opponents and acquire inside information about how they operate; but they also benefit from what public relations companies call "image transfer": absorbing other people's credibility. Over the past 20 years, the majority of Britain's most prominent greens have been hired by companies whose practices they once contested. Jonathon Porritt, David Bellamy, Sara Parkin, Tom Burke, Des Wilson and scores of others are taking money from some of the world's most destructive corporations, while boosting the companies' green credentials. Now they have been joined by a man who was, until last week, rightly admired for his courage and integrity: the former director of Greenpeace UK, Lord Melchett. Yesterday he started work at the PR firm Burson Marsteller. Burson Marsteller's core business is defending companies which destroy the environment and threaten human rights from public opinion and pressure groups like Greenpeace. So what are we to make of these defections? Do they demonstrate only the moral frailty of the defectors, or are they indicative of a much deeper problem, afflicting the movement as a whole? I believe environmentalism is in serious trouble, and that the prominent people who have crossed the line are not the only ones who have lost their sense of direction. There are plenty of personal reasons for apostasy. Rich and powerful greens must perpetually contest their class interest. Environmentalism, just as much as socialism, involves the restraint of wealth and power. Peter Melchett, like Tolstoy, Kropotkin, Engels, Orwell and Tony Benn, was engaged in counter-identity politics, which require a great deal of purpose and self-confidence to sustain. In Tolstoy's novel Resurrection, Prince Nekhlyudov recalls that when he blew his money on hunting and gambling and seduced another man's mistress, his friends and even his mother congratulated him, but when he talked about the redistribution of wealth and gave some of his land to his peasants they were dismayed. "At last Nekhlyudov gave in: that is, he left off believing in his ideals and began to believe in those of other people." Lord Melchett was also poorly rewarded. There is an inverse relationship between the public utility of your work and the amount you get paid. He won't disclose how much Burson Marsteller will be giving him, but I suspect the world's biggest PR company has rather more to spend on its prize catch than Greenpeace. But, while all popular movements have lost people to the opposition, green politics has fewer inbuilt restraints than most. Environmentalism is perhaps the most ideologically diverse political movement in world history, which is both its greatest strength and its greatest weakness. There is a long-standing split, growing wider by the day, between people who believe that the principal solutions lie in enhanced democracy and those who believe they lie in enhanced technology (leaving existing social structures intact while improving production processes and conserving resources). And, while the movement still attracts radicals, some are beginning to complain that it is being captured by professional campaigners whose organisations are increasingly corporate and remote. They exhort their members to send money and sign petitions, but discourage active participation in their campaigns. Members of Greenpeace, in particular, are beginning to feel fed up with funding other people's heroics. As the movement becomes professionalised and bureaucratised (and there are serviceable reasons why some parts of it should), it has also fallen prey to ruthless careerism. The big money today is in something called "corporate social responsibility", or CSR. At the heart of CSR is the notion that companies can regulate their own behaviour. By hiring green specialists to advise them on better management practices, they hope to persuade governments and the public that there is no need for compulsory measures. The great thing about voluntary restraint is that you can opt into or out of it as you please. There are no mandatory inspections, there is no sustained pressure for implementation. As soon as it becomes burdensome, the commitment can be dropped. In 2000, for example, Tony Blair, prompted by corporate lobbyists, pub licly asked Britain's major companies to publish environmental reports by the end of 2001. The request, which remained voluntary, managed to defuse some of the mounting public pressure for government action. But by January 1 2002, only 54 of the biggest 200 companies had done so. Because the voluntary measure was a substitute for regulation, the public now has no means of assessing the performance of the firms which have failed to report. So the environmentalists taking the corporate buck in the name of cleaning up companies' performance are, in truth, helping them to stay dirty by bypassing democratic constraints. But because corporations have invested so heavily in avoiding democracy, CSR has become big business for greens. In this social climate, it's not hard to see why Peter Melchett imagined that he could move to Burson Marsteller without betraying his ideals. It was a staggeringly naive and stupid decision, which has destroyed his credibility and seriously damaged Greenpeace's (as well, paradoxically, as reducing his market value for Burson Marsteller), but it is consistent with the thinking prevalent in some of the bigger organisations. Environmentalism, like almost everything else, is in danger of being swallowed by the corporate leviathan. If this happens, it will disappear without trace. No one threatens its survival as much as the greens who have taken the company shilling.

Torna su


Bilancio Sociale, il modello aziendale del futuro.
Per trasformare la moda del socially correct in cultura imprenditoriale. E per non perdere credibilità

Riceviamo e portiamo a conoscenza dei nostri visitatori questo articolo (pubblicato sul quotidiano ".com", di venerdi 28 dicembre 2001) della Dott.ssa Ilaria Catastini, Vice Presidente Hill & Knowlton Gaia e Membro dell'Associazione ANIMA - Unione Industriali di Roma.

Mai si era assistito, prima d'ora, a un tale fiorire di iniziative aziendali di sostegno umanitario e di comunicazione sociale. E' una tendenza che si va consolidando anche nel nostro Paese, che ha ricevuto la spinta definitiva dall'eco della protesta no-global prima, e dallo choc dell'11 settembre dopo, ma che certamente stava maturando già da qualche anno, quantomeno negli ambienti più all'avanguardia dell'imprenditoria nazionale. Complici forse la diffusione dei nuovi modelli di cultura manageriale, o la ridondanza dei messaggi pubblicitari e dell'informazione, fatto sta che ultimamente appaiono sempre più numerose le aziende che convertono campagne pubblicitarie e azioni di comunicazione istituzionale in operazioni di sensibilizzazione o di raccolta fondi per cause sociali e umanitarie. Tanto da spingere autorevoli testate e firme del giornalismo ad una più approfondita riflessione, tanto da smuovere influenti associazioni industriali a dedicare spazio, tempo e risorse a questa nuova corrente di pensiero e d'azione, come nel caso di Assolombarda con Sodalitas e dell'Unione Industriali di Roma con ANIMA. Si tratterà di una corrente passeggera, pronta a ritornare nei ranghi alla prima avvisaglia di insuccesso, o di una tendenza con radici serie e profonde, inarrestabile e destinata a cambiare per sempre i connotati dell'impresa del nuovo millennio? E come è possibile monitorare o misurare il cambiamento in corso nella cultura d'impresa? E' assodato come lo "sposalizio" di un'azienda con una causa sociale divenga efficace solo e soltanto nella misura in cui l'azienda stessa è in grado di dimostrare in modo trasparente la "pulizia" della sua "fedina sociale". In altre parole, se attraverso le mie azioni di marketing raccolgo fondi per i bambini del terzo mondo, non posso certo avere siti produttivi nei quali utilizzo manodopera minorile; se imposto la mia strategia di comunicazione su temi ambientali, devo poter dimostrare l'eco-compatibilità dei miei processi e dei miei prodotti o, quantomeno, gli sforzi compiuti per ridurne l'impatto ambientale. Pena un effetto drammaticamente controproducente e la perdita di credibilità. I nuovi strumenti di bilancio ambientale e sociale servono per l'appunto a dimostrare l'autenticità e la serenità di questo approccio e non vi è dubbio che le aziende che orientano la propria comunicazione su tematiche sociali ne debbano essere provviste. Ma che cosa significa realmente per un'azienda intraprendere questa strada? Significa avviare un processo lungo, graduale e certamente non semplice che porterà, nel tempo, alla fine, a modificare profondamente non solo la propria identità (esterna e interna) ma addirittura il proprio DNA, la propria "anima". Significa, ad esempio, modificare completamente i criteri e le modalità di scelta dei propri fornitori, selezionando solo quelli in grado di garantire con la stessa autenticità e serietà l'"attivo" del proprio bilancio sociale. O ripensare ogni singolo componente dei propri prodotti, affinchè ognuno di essi rappresenti la sintesi di un'azione produttiva socialmente e ambientalmente corretta. Significa ancora prestare un'attenzione nuova alle politiche del lavoro e della sicurezza e riconsiderare i rapporti con le comunità che vivono vicino ai propri insediamenti produttivi. Significa porre sotto una nuova luce la valutazione di nuovi investimenti, nuove acquisizioni, nuovi assetti societari, nuove partnership e rivedere i propri rapporti con le Istituzioni, locali e nazionali, con il mondo politico, ponendo maggiore attenzione agli effetti di azioni di lobby, alle loro ripercussioni sociali. E' un cambiamento così profondo, quello che scorre sotto la superficie di questa nuova "moda del socially correct", da rischiare di influire in modo decisivo non solo sulla cultura imprenditoriale, ma sulla società nel suo complesso, e sul suo futuro. Ma è proprio ciò di cui questa società ha davvero bisogno. Se c'è un ruolo, importante, che la nuova classe dirigente del nostro Paese può svolgere, è proprio questo. Sarà un processo lento, graduale e difficile, ma è la vera sfida per l'impresa dei prossimi anni. E' la lobby dell'anima.

Torna su


Multinazionali, dura marcia per l'immagine
di Gabriele Di Matteo

"Perchè alcuni dei più celebrati marchi del mondo vengono oltraggiati e coperti dallo spray, perchè sono diventati l'obiettivo preferito degli hackers e delle campagne antiindustriali? E che dire della Nike, il cui "sguscio", è diventato in alcune occasioni simbolo del lavoro minorile, e del relativo sfruttamento?" Saranno sufficienti queste accuse gettate come sassi nello stagno del marketing dalla giornalista americana Naomi Klein col suo best seller "No logo", ad incrinare il valore di marchi leggendari, che per decenni hanno creato sogni e provocato consumi portando nelle casse delle corporation fatturati per miliardi di dollari? Una cosa è certa, la parola globalizzazione, che fino a ieri sembrava rassicurante per il consumatore, dopo la crescita del popolo di Seattle è rifiutata dalle stesse aziende globali, che qualche tempo fa inserivano il concetto nei loro statuti societari. Sotto attacco, per esempio, sono dorati del McDonald's che il professor Jeremy Rifkin in "Ecocidio" descrive come "le porte d'ingresso di un cinico paradiso imprenditoriale" vengono ora presentati al mercato come marcio che ha profonde radici locali. "E' sbagliato attaccare McDonald's come simbolo della globalizzazione", sottolinea Alfredo Pratolongo, nella sede italiana della madre di tutti gli hamburger, che con i suoi 310 punti vendita fattura 810 miliardi, e ne investe in pubblicità circa 30. "Siamo un'azienda profondamente locale, e sono le stesse cifre a rimarcarlo: i nostri ristoranti, in tutto il mondo, sono gestiti da imprenditori che danno lavoro ai giovani del posto. Inoltre, già da qualche anno, le materie prime sono> acquistate per l'85% in Italia, e per il restante 15%, in Europa". Ma allora, come si spiega l'introduzione del sushi e della pizza, se non come tentativo di stemperare l'immagine di azienda particolarmente "forte" nell'imporre il suo gusto? "Andiamo incontro alla domanda di milioni di famiglie, ecco perché i menu si stanno adeguando", ribatte Pratolongo. Stesso copione, ancora paradossalmente 'antiglobale', presso la Coca Cola, un marchio davvero universale, di cui solo il nome registrato è stato valutato oltre 150mila miliardi di lire: "Non siamo mai stati oggetto di attacchi da parte dei movimenti antiglobal", spiega Nicola Raffa, communication manager del gruppo per l'Italia. "La filosofia che accompagna la nostra campagna internazionale è Think local, act local. CocaCola Foundation in 10 anni ha investito 100 milioni di dollari per l'educazione dei giovani, e la protezione dell'ambiente, ha finanziato la nascita di scuole in Cina, Messico e Filippine". Procter & Gamble ha fatto delle attività nonprofit una bandiera: "Dash da 15 anni finanzia la Missione Bontà, cui la P&G ha destinato finora 9 miliardi di lire", spiega Vito Varvaro, capo per l'Italia dell'azienda di Cincinnati. "L'esempio più recente di questa operazione è Ospedale Amico: 31 sale giochi e accoglienza e altrettanti centri di assistenza presso gli ospedali pediatrici. Normalmente portiamo avanti i progetti in forte collaborazione con attori importanti dell'impegno sociale, quali Unicef, Azione Aiuto o l'Alto Commissariato dell'Onu per i rifugiati. Molti dei nostri progetti, oltre ad avere la solidarietà e l'appoggio di milioni di italiani, hanno avuto il riconoscimento di istituzioni come la presidenza della Repubblica che ci ha onorato dell'alto patronato". E McDonald's cosa sta facendo, in termini sociali? "Noi crediamo di dover restuire alla comunità, quello che la comunità ci dà", riprende Pratolongo, e ricorda che la Ronald McDonald's House Charity opera in 41 Paesi del mondo investendo 300 milioni di dollari per costruire 3.200 case di accoglienza per 100mila genitori di bambini, che hanno bisogno di ricoveri ospedalieri. Se Bill Gates ha donato 44mila miliardi di lire a una fondazione che investe nei paesi in via di sviluppo, il suo amico Charles Wang, il cinese patron di Computer Associates, su un giro d'affari di 13mila miliardi offre alcune decine di milioni di dollari alla beneficienza: inizative per i missing childrens, i bambini scomparsi che negli Usa sono un vero incubo, e una parte di primo piano nella Digital Divide Task Force. "Un gruppo di manager che ha presentato in varie edizioni del G8 documenti programmatici, e idee concrete affinché il gap tecnologico, che divide in due il Pianeta venga colmato nel cosro dei prossimi anni", ricorda alla Computer Associates Carlo Cecchi. Tornando ad esempi più vicini, citiamo il caso del Gruppo Webegg che lavora con Legambiente per aiutare la rinascita del Lambro devastato dall'inquinamento. Oliviero Toscani sostiene che la charity "è solo la coda di paglia di un'industria in crisi d'immagine irreversibile" ma ci sono dei pubblicitari già sensibilizzati al problema dell'antiglobalizzazione. "Se è vero che la pubblicità tenta di catalizzare le nuove culture giovanili, non possiamo ignorare la pressione culturale delle Tute Bianche", dice Nicola Zanardi, fondatore dell'agenzia milanese XYZ Reply, che lavora con Legambiente. "Il fatto che questi giovani non vadano a protestare davanti alla Confindustria, ma davanti ai politici, è una precisa indicazione per i Governi che aderiscono al G8". Dice Enrico Montangero, presidente di Assocomunicazione: "Questa nuova ondata rivoluzionaria non si gestisce come una normale crisi che riguarda questa o quella marca. Stavolta ci troviamo di fronte ad un fenomemo complesso, di portata mondiale, che esula dalle competenze della pubblicità e del marketing: tocca ai politici dettare nuove regole". Aggiunge un giovane creativo milanese: "Scott Bedbury, la cui idea Just do it ha reso universale il successo della Nike, dovrebbe inventarsi uno slogan altrettanto forte, per cancellare le accuse di sfruttamento per lavoro minorile, raccontate anche dal sito www.nikebiz.com/labor, che tutti dovrebbero consultare prima di infilarsi le mitiche scarpe con lo sguscio".
Fonte: Repubblica, intervento contenuto nel sito www.unimondo.org

Torna su


Le difficoltà di conciliare gli aspetti economici con l’integrazione Come mettere d’accordo bilanci di una società e solidarietà: le difficoltà da superare, parla un addetto ai lavori.
di Liana Bugli Vicepresidente Coop. Soc. Int. Mar dei Coralli

Dieci anni fa entrai a fare parte dell’Associazione Culturale “Franco Basaglia ‘84”, con l’idea che ‘al di là delle difficoltà e del disagio che le persone mostrano, ognuno di noi è una persona con pari dignità, diritto di cittadinanza e competenze, una risorsa per la società che la collettività ha il dovere di “utilizzare” al meglio. Oggi sono sempre più convinta di questo e come socio fondatore della cooperativa sociale integrata “Mar dei Coralli” mi sono posta in questa ottica: produrre opportunità lavorative per le persone che per motivi diversi sono fuori dal mercato del lavoro e che solo riappropriandosi di tale diritto possono essere riconosciuti come cittadini. In particolare, per mia formazione professionale, ho rivolto l’attenzione alle persone con disagio psichico, individuando nella cooperativa stessa uno strumento utile per il percorso riabilitativo intrapreso dai singoli nell’ambito della salute mentale. E’ nella fattività di conciliare l’aspetto economico e l’aspetto sociale che mi sono scontrata, anzi incontrata, con delle difficoltà che credo possano e debbano essere spunto di riflessione fra tutti quelli che operano nel campo della cooperazione sociale. Innanzitutto l’aspetto legislativo: è previsto il riconoscimento dalla Regione come cooperativa sociale integrata se almeno un terzo dei soci rientra nelle categorie svantaggiate previste dalla legge 381; per il disagio psichico tale requisito deve essere attestato con il certificato di invalidità da cui si evince la percentuale per cui il soggetto è o meno in grado di lavorare, facendo attenzione a che non risulti inabile al lavoro e quindi impossibilitato a svolgere qualsiasi attività lavorativa. Spesso succede che alcune persone con disagio psichico ed in cura presso i servizi territoriali di competenza, non vogliano essere etichettati come persone con scarsa capacità lavorativa, pur se in progetti di inserimento lavorativo è necessario tenere conto del loro momentaneo scarso rendimento, ma questa attenzione alla persona vale anche per chi magari ha momentaneamente subito un lutto, litigato con il partner o semplicemente ha la “la luna di traverso". A livello legislativo si tiene solo conto della certificazione ufficiale e spesso non è del tutto veritiera. Ho incontrato durante tutti questi anni persone considerate inabili al lavoro che messe alla prova sono state in grado di essere risorsa per il progetto in atto e in grado di riconoscersi delle competenze. Ed allora? Da una parte è necessario riconoscere al disagiato tale stato che può durare anni, perché rispetto ad un suo percorso riabilitativo sia agevolato, ma questo sostegno gli si riconosce solo se accetta di portarne il marchio che siccome comporta poi anche una pensione a lungo andare risulterà avere dei “vantaggi” (chi faticherebbe per avere un apporto economico se questo si può avere “semplicemente entrando nel ruolo di matto”?) Sarebbe auspicabile sostenere le famiglie che vivono in prima persona le difficoltà anche economiche (costo delle medicine specifiche e di altri interventi necessari alla dignità del loro familiare) dando così la possibilità di vedere in prospettiva il disagiato come persona in grado di potersi sostenere, liberando sia la famiglia, che il “familiare” dal peso della solitudine sociale. La collettività si “riapproprierebbe” del disagio psichico come fenomeno non individuale, ma sociale dando una risposta in tale senso, utilizzando, se e quando necessario, la cooperativa sociale integrata come strumento all’interno di una risposta che deve seguire necessariamente la strategia d’impresa sociale. Oltremodo si dovrebbe riconoscere nella percentuale dei disagiati previsti per legge, anche chi non vuole essere “marchiato”. L’aspetto economico: una attività che si propone come opportunità lavorativa per i propri soci deve tenere necessariamente conto dell’aspetto economico. Si deve avere sempre “sotto gli occhi” l’aspetto finanziario della cooperativa, il suo bilancio globale ed il rendimento delle singole attività che lo compongono. La cooperativa sociale integrata deve però considerare parallelamente altri due aspetti: quello sociale e quello dell’integrazione. Alcune volte attività che comportano un bilancio economico non positivo hanno invece un bilancio sociale buono con una integrazione accettabile. La modalità condivisa dal mondo imprenditoriale, con cui si legge il bilancio di una qualsiasi società ha però dei parametri che non rilevano l’aspetto sociale della stessa, comportando così il rischio di perdere di vista tale aspetto per la necessaria sopravvivenza economica della cooperativa, perdendo le finalità per cui si era costituita. Paradossalmente più cresce l’attività più alto è il rischio, come se venisse sancito il fatto che la Cooperazione sociale va bene finché non entra nel mercato competitivo dei “grandi” (è maggiormente vero per le Cooperative sociali integrate che oltretutto intendono fare divenire risorsa competitiva chi “è degno solo di assistenza”!) E allora? Mi chiedo se esistono dei parametri per la stesura di un Bilancio Sociale, che tenendo conto di quelli economici li integri con altri indici affinché la Cooperativa Sociale Integrata possa essere veramente considerata come risorsa imprenditoriale e non debba necessariamente essere subordinata ad attività collegate strettamente al sanitario, che comporta un bilancio economico spesso di notevole supporto con nessuna o scarso rendimento sociale e d’integrazione (l’utilizzo della Cooperativa in tale senso può e deve essere una opportunità, ma non la sola!). Delle volte poi l’apporto economico del settore sanitario permette una “integrazione” nel senso che, sottopagando chi opera per la cooperativa si sviluppa un disagio,sociale e a quindi il così detto “normale” è integrato nella misura in cui “diviene disagiato”!! Potrei dilungarmi ancora molto su questo mondo a cavallo tra il sociale, il sanitario e l’imprenditoria (cosa si intende per impresa sociale)? E’ un concetto condiviso? Quali sono i rapporti economici e legislativi tra i “tre mondi”? Cosa si intende per Integrazione?...) Credo che se questo mio sintetico e probabilmente incompleto scritto possa essere da spunto per un confronto sui temi emersi, sarebbe già un notevole passo per affrontare con la necessaria complessità ciò che riguarda il nostro essere nel mondo.

Torna su


Responsabilità sociale d’impresa e cooperazione
di Adriano Turrini - Presidente Legacoop Bologna

Oggi si parla molto della dimensione etica dell’impresa. L’idea è molto semplice: un richiamo ai valori, al collegamento con la comunità, alla responsabilità sociale. Lo scopo delle imprese non dovrebbe essere solo il profitto, così come lo scopo delle persone non è solo nutrirsi. In questa ottica si possono considerare superate affermazioni come quelle di Milton Friedman che negli anni Settanta scriveva “vi è una sola responsabilità sociale dell’impresa, aumentare i suoi profitti”. Purtroppo quella della responsabilità sociale e della dimensione etica dell’agire d’impresa sono anche idee che stanno cominciando a diventare di “moda”: e come tutte le mode dietro la superficie evaporano i contenuti, la sostanza. Trovo preoccupante che questo concetto possa essere strumentalizzato fino al punto che il Ministro del Welfare arrivi a fare balenare l’idea che perché un’impresa possa definirsi etica sarebbe sufficiente un po’ di beneficenza, magari laddove lo Stato fa fatica ad arrivare. Ovviamente, in questa prospettiva a decidere quali imprese si possono definire etiche ci penserebbe il bollino assegnato da qualche ministero. Questo è male perché l’idea della responsabilità sociale dell’impresa – fermo restando che ovviamente l’equilibrio economico rimane una condizione essenziale per il suo sviluppo – porta con se implicazioni importanti per la stessa riorganizzazione delle prassi produttive delle aziende. Un’impresa socialmente responsabile non è solo un’impresa in cerca di legittimità sociale, ma è anche un’impresa che fa di certi valori la guida per organizzare le sue attività. Per me, come Presidente di Legacoop Bologna, un’associazione di rappresentanza delle cooperative che operano in questa provincia, il tema è particolarmente caro perché è in qualche modo connaturato alle imprese che rappresento. In questo settore parlare di etica d’impresa è qualcosa di più che la testimonianza di una volontaria adesione a qualche standard etico di comportamento. A Bologna abbiamo grandi imprese che, grazie alla base di valori cooperativi, sono state in grado di coniugare benissimo crescita economica, competitività e solidarietà sociale. Basti pensare a Coop Adriatica che proprio di recente è stata premiata con il Sodalitas Social Award per il progetto Ausilio o a Granarolo, società a capitale cooperativo, che fra le prime in Italia ha promosso il bilancio di sostenibilità sociale, uno strumento più avanzato rispetto al bilancio sociale, che non limitandosi a registrare, cerca anche di indirizzare l’attività di un’impresa lungo le direttrici della sostenibilità e del rispetto all’ambiente in cui opera. Ma questo collegamento fra valori cooperativi e responsabilità sociale è altrettanto visibile in casi meno eclatanti: la formula cooperativa è usata anche per sostenere “quasi-imprese” che fanno dell’impegno sociale la loro stessa ragione di esistenza. Per non parlare poi del fenomeno delle cooperative sociali, che unendo sostenibilità economica e responsabilità sociale, a Bologna, come in altre Province, gestiscono servizi sociali di primaria importanza per conto del pubblico (da asili a servizi per anziani) e danno concrete possibilità di inserimento sociale a lavoratori svantaggiati. Ragionare in termini di etica d’impresa ovviamente non deve essere appannaggio delle sole cooperative e mi auguro che, anche grazie ad iniziative come l’associazione Impronta Etica nata proprio a Bologna, la riflessione si allarghi sempre più. A patto che si ragioni sulla sostanza e non sulla superficie del problema che corre il rischio di essere fagocitato da qualche moda del momento.

Torna su


Perché dico si al Bilancio Sociale
di Fabio Bego

Di bilancio sociale d’impresa in Italia si parla sin dagli anni ’70 : le elaborazioni dottrinali sono ottenute dalla metà circa degli anni ’80, mentre gli sviluppi applicativi si sono avuti a partire dagli anni ’90. E’ necessario innanzitutto puntualizzare le caratteristiche generali del bilancio sociale d’impresa per rendere sempre più chiaro che cos’è tale documento e quali sono i suoi elementi essenziali.

1. In linea generale si può dire che il ricorso al bilancio sociale è giustificato almeno da un triplice ordine di motivi:

a. dalla consapevolezza che l'attività d'impresa produce effetti sociali che la contabilità generale non raccoglie e il bilancio di esercizio non riesce a rappresentare;

b. dal fatto che i dati riportati nel bilancio di esercizio hanno una loro valenza sociale che non emerge da quel contesto;

c. dal nuovo modo di concepire l'impresa. Questa viene oggi considerata come un centro nel quale convergono interessi riconducibili a vari gruppi di soggetti che intendono poterli soddisfare. L'impresa deve riuscire a dare loro adeguata soddisfazione se intende mantenere vivo il rapporto che ha instaurato con essi.

Soffermando l'attenzione sui tre punti considerati si può osservare quanto segue:

I) E' unanimemente riconosciuto che l'impresa svolge funzioni economiche e sociali. Dove finiscano le prime e comincino le seconde non è possibile stabilirlo perché non esiste un confine che le delimiti. Un tempo si pensava che coincidessero e che fossero legate al risultato economico: quanto più elevato era il reddito tanto più si riteneva che l'impresa fosse riuscita ad assolverle entrambe. Era questo il periodo in cui la domanda dei beni superava l'offerta, e la sicurezza del posto di lavoro rappresentava l'aspirazione più alta di gran parte della popolazione attiva. Con il miglioramento delle condizioni generali di vita è emerso che le due funzioni non coincidevano affatto, e che il risultato economico poteva essere realizzato anche a discapito di interessi di singoli e di gruppi, e talora anche a discapito dell'intera società. A scanso di equivoci va detto che l'impresa, in quanto strumento per operare in campo economico, ha lo scopo primario di creare ricchezza; e va anche chiarito che il concetto di ricchezza può essere inteso non solo come reddito misurabile monetariamente, cioè come differenza fra costi e ricavi, ma anche in senso più ampio: come capacità di realizzare beni e servizi in grado di soddisfare bisogni, di rimuovere cause di disagio, di produrre cose capaci di generare benessere, di contribuire a migliorare la qualità della vita. Ciò che importa è che i risultati ottenuti abbiano un valore superiore rispetto a quello delle risorse consumate per ottenerli. Una impresa che non è in grado di produrre ricchezza, intesa nel significato appena indicato, non ha ragione di esistere; se la distrugge, è dannosa. Perché la produzione di ricchezza è la premessa, la condizione per il raggiungimento qualunque finalità. Non c'è fine, per quanto giusto buono e bello, che l'impresa possa perseguire se non riesce a coniugarlo con la creazione di nuova ricchezza. Da qui la necessità di valutare il comportamento di un'impresa considerando congiuntamente gli aspetti economici e sociali della sua attività. Il giudizio basato su uno soltanto di essi dà inevitabilmente una visione incompleta e distorta. La contabilità generale non rileva gli aspetti sociali dell'attività aziendale; questo limite si riflette sul bilancio di esercizio e impone, a chi vuole rappresentare quegli aspetti, la ricerca di un nuovo strumento.

II) Com'è noto i dati riportati nel bilancio di esercizio servono per il calcolo di due grandezze interdipendenti: il capitale di funzionamento e il reddito di esercizio; e indicano, rispettivamente, il valore dei beni a disposizione dell'impresa per lo svolgimento dell'attività futura, e la misura della nuova ricchezza distribuibile. Queste esigenze di calcolo condizionano la possibilità di fare emergere la valenza sociale dei dati in esso riportati. In altre parole si vuol dire che disaggregando e riclassificando una parte di quei dati si possono mettere in evidenza significativi aspetti sociali dell'attività d'impresa. Si pensi agli investimenti che in modo più o meno diretto producono effetti sociali, e si pensi anche al valore aggiunto, la cui produzione e distribuzione non traspare dal conto economico. I tentativi di ampliare il contenuto del bilancio di esercizio per arricchirne la capacità informativa sono ancora a livello di proposte. Appare invece più attuale e facilmente praticabile il ricorso al bilancio sociale, nel cui ambito i dati contabili trovano accoglimento.

III) Si è detto che l'impresa viene considerata come un centro nel quale convergono interessi alla ricerca di soddisfazione. Sono interessi molto variegati e talora anche in contrasto tra loro, perché i soggetti che li esprimono vorrebbero poterli soddisfare nel modo più ampio possibile, anche a discapito di quelli altrui. Chi governa l'impresa ha il compito di contemperare e di ricercare tra essi una sorta di equilibrio, vale a dire un livello di soddisfazione che ciascun soggetto ritiene accettabile e capace di vivificare la continuità dei rapporti. Sul livello di soddisfazione dei soggetti che esprimono questi interessi poggia il consenso di cui gode l'impresa: un consenso che deve essere ricercato, mantenuto e migliorato; e nel caso in cui venga meno, deve essere ripristinato. Esso è condizione di equilibrato svolgimento dell'attività futura, ed è anche la premessa del successo.

Torna su





powered by copyright © 2000 Reporting R.P.